I Fanciulli del Pontile

Camminavo da molti giorni e mi ero lasciato alle spalle un territorio in tumulto e disastrato da troppi conflitti. Le strade erano piene di profughi e la disperazione era ben radicata in ogni sguardo che incrociavo.
Malattia, povertà e fame sembravano davvero ormai le uniche padrone del mondo, pronte a banchettare ad ogni angolo, a piegare ogni uomo sotto in giogo della sofferenza.

Non potevo farci nulla, un vecchio soldato di ventura come me non aveva il potere di cambiare le cose e tutto il tempo passato a combattere aveva indurito i miei sentimenti, ormai guardavo gli altri e vedevo il triste spettro della mia miserabile esistenza.
Certamente quello che per molti era disgrazia e rovina, per me era terreno fertile nel quale far prosperare il mio lavoro. Una spada di questi tempi era grandemente più utile di una zappa, e sebbene non fossi il migliore, padroneggiavo l’arte di saper uccidere e questa pagava.

Non mi piaceva fare quello che facevo, ma non avevo in tutta sincerità altri talenti e qualche moneta nella mia bisaccia era il segno palpabile che alcuni apprezzavano anche il mio mestiere. Oggi potevo servire un Signore, domani il suo nemico, ma nessuno sembrava farci caso, il mondo girava così.
Alcune volte mi chiamavano voltagabbana, altre traditore, ma tutti sapevano che il termine che mi rendeva più giustizia era mercenario.

Una vita spesa fra i campi di battaglia, lunghe notti a difendere o cercare di bruciare questo o quel castello, una torre di guardia, o chissà cos’altro, talvolta sbarcavo il lunario persino come scorta per le carovane mercantili.
Quando badavi a cavalli e qualche ricco idiota, si profilavano giorni più sereni del solito, in cui si mangiava meglio e dormiva di più, ma di questi tempi erano incarichi rari, chi poteva commerciare in mezzo ad una guerra…
Sempre che davvero di guerra si potesse parlare, la sottile arte bellica era stata sostituita da tempo da banali razzie, sciacallaggi e scorribande. Non si combatteva per ottenere la vittoria, o indebolire il nemico, ma per accaparrarsi merci, ricchezze e persone.
Venivo pagato per impaurire i villaggi affinché pagassero tasse e tributi, per brutalizzare qualche rivoluzionario in erba, per far valere il duro pugno della legge marziale. Non c’era niente di bello nel pestare vecchi e ragazzini, nello schiaffeggiare col metallo qualche testa calda, né tantomeno nel tendere la corda di un’impiccagione pubblica, ma io obbedivo. Mi pagavano ed obbedivo.

Avevo ormai abbastanza soldi per ritirarmi, ma il problema era dove farlo. Il mio villaggio natio non esisteva più, portato via dalla lebbra, i feudi cambiavano di mano col passare delle stagioni e nessuna terra sembrava abbastanza stabile da promettere un futuro. Più combattevo e più mi rendevo conto che combattere sarebbe forse stata l’ultima cosa che avrei fatto.

Quella sera stavo passando per un piccolo borgo affacciato sul mare, la casa di un pugno di pescatori che puzzavano di sale e di piscio. Sebbene si trattasse solo di un minuscolo borgo, isolato e dimenticato, notai che qui il conflitto sembrava non essere arrivato. Le case erano fatiscenti, ma in piedi, il piccolo molo era pericolosamente inclinato, ma sostanzialmente intatto ed anche gli abitanti, benché grigi come il cielo invernale, quanto meno non sembravano malnutriti.

Un vecchio stava appena fuori da una casetta di legno, poco distante dalla riva, su una sedia sghemba, impegnato a riparare una grossa e robusta rete. Guardandolo ebbi una sensazione strana, sebbene non stesse facendo nulla di male, percepii quasi una somiglianza con me, il suo sguardo impietrito, l’apparente disinteresse con il quale faceva il suo lavoro… una sensazione, mi dicevo, solo una sensazione.

 

 

Mi avvicinai all’uomo, chiedendo dove potessi passare la notte e mangiare qualcosa, facendo tintinnare un borsello con qualche moneta dentro, ma il vecchio non alzò neppure lo sguardo, restando impassibile, mentre continuava il suo lavoro.

Forse aveva perso qualche figlio in guerra, forse non gli piacevano i soldati, o forse era soltanto sordo, non mi riguardava. Dopo qualche istante di silenzio greve, andai avanti, cercando qualcuno di più collaborativo. Non ebbi successo: una donna che spingeva con forza una bambina verso l’interno di un tugurio, rifuggendo il mio sguardo; un ragazzo che si allontanava quasi correndo, pur di non rispondere ai miei richiami; e ancora un pescatore che tirava la sua piccola barca in secca, mentre masticava rumorosamente alghe, guardandomi dritto negli occhi, senza dirmi una sola parola.

Nessuno sembrava volermi né aiutare, né dare informazioni e pensai sinceramente di continuare il mio cammino, ma era quasi buio e la prospettiva di una notte all’addiaccio non era allettante e mi faceva tentennare. Le mie ossa stanche bramavano un letto, il mio spirito una pausa, i miei muscoli di potersi rilassare.

Proprio mentre stavo per riprovare a cercare qualcuno di più collaborativo, li vidi. Erano in tre, ragazzini di non più di dieci o dodici anni, proprio sotto il pontile che si proiettava sul mare, circa a metà dell’estensione del villaggio. Non indossavano abiti, erano completamente nudi, con i piedi in acqua, sporchi di fango, magri in una maniera quasi lugubre. I loro occhi sembrano persi, bui, alienati e mentre cercavo di capire se quello che vedevo era reale, uno di essi si girò verso di me, osservandomi fermo e silenzioso.

Mi guardai intorno scandalizzato, per capire se ero solo io ad essermi accorto che c’erano dei bambini abbandonati, ma i pochi passanti che ancora non erano rincasati, passavano vicino ai fanciulli senza guardarli, non facendoci caso, come se nemmeno esistessero.

Un pescatore si accorse di me mentre guardavo livido la gente del paese e sputò per terra un grumo scuro, quasi un segno del marcio che albergava nel suo animo. “Perché non li aiuti tu, se proprio ci tieni? – mi irrise spavaldo – Che ci vuole, spezza le catene di quei piccoli bastardi!”

Stavo per estrarre la spada e ridurre la spacconeria dell’uomo a scuse e piagnuccolii, quando il significato delle sue parole mi colpì in ritardo, catene?

Mi volsi a guardare i bambini e ciò che non avevo visto ad una prima occhiata, mi apparve ora nitido.
I fanciulli erano incatenati ai pesanti pali di legno del pontile; erano catene di ferro, arrugginite, che si mischiavano e pendevano in mezzo al fango, ma erano innegabilmente reali. Cingevano le caviglie di quei ragazzini, anche se loro non sembravano curarsene e silenziosi attendevano fermi nell’oscurità.

Le atrocità della guerra sono difficili da accettare e sopportare, si vedono cose che restano incise in profondità nella memoria; e la cosa peggiore è che anche volendo, spesso non si può fare molto, non certamente evitare i morti, le menomazioni, i roghi, la fame, le malattie…

All’inizio si stenta ad accettare la realtà, ci si domanda se non sia doveroso rifiutarsi di compiere certe azioni, ma col tempo ci si abitua, la sensibilità diventa meno acuta, le atrocità così frequenti, da smettere di essere significative. E un giorno si smette di vedere, è più facile, più comodo, è un modo per sopravvivere.

Quando però mi trovai di fronte all’insensato gesto di un pugno di zotici ignoranti, qualcosa scattò dentro di me, un desiderio di rivalsa per tutto quello che avrei potuto fare e invece non avevo mai fatto.
Avevo visto troppo negli anni, avevo girato la testa troppe volte e cosa avevo ottenuto: qualche moneta e un animo greve e pensate che mi avrebbe seppellito anzi tempo, sotto un letto di rimorsi.

Mi avvicinai ai fanciulli, entrando con i calzari nell’acqua limacciosa marina, muovendomi lentamente verso di loro. Il pescatore si avvicinò anche a lui, pur restando fuori dall’acqua e, accovacciandosi a terra, mi disse ancora “Io non lo farei, straniero.”
Lo guardai truce, ed avanzai imperterrito, fino a quando il sole morente scomparve sopra la mia testa, nascosto dal pontile di legno.
I tre fanciulli mi guardavano silenziosi, non c’era traccia di paura nei loro volti e nemmeno speranza, o follia, sembravano solo attendere silenziosi la loro liberazione. Una volta raggiunti, cercai a tentoni la catena che li legava nel fango e la estrassi dall’acqua, appoggiandone una porzione su un grosso sasso, quindi estrassi la spada, preparandomi a fare esattamente quello che il pescatore mi aveva consigliato.

La fitta che avvertii alla coscia non capii subito da cosa dipendesse, ma fu dolorosa e improvvisa, guardai in basso e vidi un ragazzino che aveva appoggiato le sue mani delicate contro la mia gamba, quindi mi aveva letteralmente azzannato. Lì per lì pensai che si fosse sentito in pericolo, ma l’istante dopo, un altro mi era saltato addosso e mi aveva morso al collo, appena sopra la gorgiera. Il terzo fu su di me, prima che potessi reagire e con un colpo secco mi spezzo il braccio che teneva la spada, mandandola a perdersi in acqua.
Non ci furono più dubbi a quel punto, non erano dei bambini quelli che avevo ingenuamente certato di soccorrere, erano mostri…

Tutta la mia prudenza, tutta l’attenzione che negli ultimi anni aveva dominato la mia esistenza era venuta meno in una singola occasione e subito mi ero ricordato la ragione per la quale era importante non esporsi mai: la morte era sempre in attesa.

Afferrai il moccioso che mi aveva azzannato il collo col braccio buono e con uno sforzo estremo me lo strappai di dosso, ma si rivelò l’ennesimo errore. Quel moccioso maledetto, mentre cercavo di scrollarmelo di torno, si portò via con un morso un lembo della carne del mio collo, causandomi un’emorragia. Mentre le forze mi cominciavano ad abbandonare, l’esperienza di soldato mi venne in soccorso: con un calcio mi liberai del bambino che mi aveva morso la gamba, afferrai la catena a cui i tre erano legati e la tirai con quanta energia mi restava.

I ragazzini persero l’equilibrio, ma sfibrato e con la vista annebbiata dal sangue, cominciavo a ragionare a fatica. Il collo pulsava e ne sgorgavano fiotti di sangue che tingevano di rosso il mare, il braccio spezzato era insensibile e le gambe non mi reggevano. Mentre respiravo affannato, con un piede toccai la spada che mi era caduta in acqua, pensai ad un colpo di fortuna e mi chinai a raccoglierla, ma ero lento, troppo lento…

Il pescatore che mi aveva deriso mi sfilò la spada da sotto le mani, mentre il primo dei tre bambini mi saltava addosso, prima atterrandomi e poi trascinandomi maggiormente al buio, sotto al pontile.
Guardai l’uomo incredulo, ma quello era sorridente e tranquillo, poco distante, ancora illuminato dagli ultimi raggi del sole. Mi sollevai un’ultima volta dall’acqua, solo per vedere un’anticipazione dell’inferno: quei mostri, simili a bambini nell’aspetto, erano ormai su di me e stavano già banchettando con la mia carne, strappandola dalle mie ossa tremanti. La mietitrice mi stava alla fine chiamando, reclamandomi nella peggiore delle maniere, annunciandosi con artigli e zanne.

Mentre il dolore si trasformava lentamente in torpore e la mia vita si dissolveva, ebbi il tempo di sentire qualche ultima parola, pronunciata dal pescatore pezzente, che mi aveva giocato come l’ultimo degli idioti: “Hai visto, straniero? Non siamo noi i mostri tutto sommato – disse, mentre ridacchiava sommesso – e anche i ghoul hanno un loro scopo.
Quando qualcuno minaccia il villaggio, o un povero sciocco passa da queste parti, li nutriamo e loro accettano silenziosamente la prigionia, attendendo famelici il prossimo pasto.
Guardiani eccellenti che finora hanno tenuto il villaggio fuori dalle vostre stupide guerre, in cambio di un piccolo prezzo di sangue, il tuo in questo caso.”

Mentre anche le parole dell’uomo risuonavano vuote e lontane e la notte mi prendeva, sorrisi un’ultima volta, pensando che finalmente avevo trovato un buon posto dove mettere radici, abbastanza lontano dall’ombra della guerra.