L’Avidità della Nebbia

C’era una volta un bimbo che viveva solo in una caverna angusta e buia.

Chi fossero i suoi genitori e come si fosse trovato a stare nella grotta, per lui non era importante, poiché quelle strette pareti di pietra che lo circondavano erano le uniche cose che avesse mai conosciuto ed il buio era l’unica luce che avesse mai visto.

Gli unici oggetti che possedeva erano abiti logori e consunti che indossava e un medaglione con un volto inciso, il suo tesoro, a cui confidava ogni segreto.

Le sue giornate trascorrevano tutte uguali, con i minuti che si trasformavano in ore e poi in giorni ed infine in mesi. Non c’era molto da fare nella grotta, se non ascoltare le gocce d’acqua cadere dal soffitto verso terra, il silenzioso volo di qualche pipistrello e lo scricchiolante strisciare di alcuni insetti.

Il bimbo però non accusava la noia, non era come tutti gli altri, poiché possedeva un insolito dono: quando lo desiderava, poteva tramutarsi in nebbia.

Dapprima il suo corpo diventava inconsistente, poi si dilatava in una densa foschia, fino ad espandersi ancor più in nebbia, andando a colmare l’intera grotta, fino agli anfratti più nascosti.

Quando era in forma di nebbia, il giovane si divertiva a dare la caccia ai pipistrelli, entrando nei loro polmoni e gelando l’aria che vi trovava, fino ad ucciderli. Si divertiva a rendere scivolose le pareti della caverna, facendo perdere la presa agli insetti, che finivano con le zampe all’aria e morivano lentamente d’inedia, o divorati dai propri simili.

Compiva questi piccoli atti di crudeltà, ma lo faceva inconsapevolmente, nessuno gli aveva insegnato a distinguere il bene dal male, ciò che era giusto da ciò che non lo era, per cui si sentiva un Dio nel suo piccolo mondo e giocava con la vita, dispensandola, o togliendola.

Ogni tanto, mentre era nebbia, percorreva gli stretti passaggi in cui si insinuavano i pipistrelli quando si allontanavano, ma per timore di non essere in grado di tornare indietro, non si avventurava mai troppo lontano; la sua Caverna era la sua casa, il dominio in cui era Re.

Così viveva il fanciullo in un mondo oscuro, riparato e chiuso, dove niente poteva sorprenderlo e lui era felice, poiché pensava di conoscere ogni cosa.

Un giorno accadde che la terra tremò, scossa nel profondo da una forza immensa.
Le antiche e possenti pareti di pietra si riempirono di fratture che poi divennero crepe ed infine cominciarono a crollare e frantumarsi, con un boato che sembrava il grido sofferente di morte del mondo.

Il bimbo era terrorizzato, perché vedeva il suo universo andare in pezzi, rovinare e frantumarsi.
Ingenuamente pensava che anche a lui sarebbe toccata la stessa sorte e che la sua vita sarebbe finita quel giorno.

Quando alla fine le scosse si arrestarono e tutto tacque, la grotta non esisteva più e dietro una parete ora distrutta, il ragazzo vide per la prima volta il mondo esterno.

Era notte e due luci brillavano nel cielo, una argentata come il riflesso del carapace degli stupidi insetti e l’altra rossa, simile al sangue dei noiosi pipistrelli.

C’era però, molto di più: alberi ed arbusti, foglie ed uccelli, animali e montagne, ma soprattutto un orizzonte aperto ed immenso nel quale lo sguardo si perdeva alla ricerca di pareti inesistenti.

Il cuore del fanciullo batteva forte nel petto, perché mai avrebbe immaginato che, oltre la sua casa, si estendesse un reame tanto vasto, ricco di innumerevoli nuovi giocattoli, tanto che non gli sarebbe bastata un’intera esistenza per scoprirli tutti.

Il suo desiderio crebbe smodatamente, avrebbe voluto toccare ogni cosa, possedere ogni singolo stelo d’erba ed allora tramutò il suo corpo in nebbia e si cominciò ad espandere lambendo ogni cosa.
Le sue spire bianche e gelide si gettarono nelle valli e su per le colline, si infilarono nel terreno morbido, avvolsero l’erba e la corteccia dei fusti degli alberi, solleticarono animali di ogni genere e scivolarono su piccoli ruscelli che scorrevano impetuosi.

Una gioia selvaggia lo dominava e ad ogni scoperta era ancor più curioso, bramando di essere ovunque. Nel suo cuore si rammaricava di aver scoperto solo ora cosa vi fosse al di là della caverna ed era in collera con tutti gli esseri viventi, che lo avevano escluso dalle loro vite, impedendogli di giocare.

Congelò alcuni pettirossi mentre erano in volo, osservandoli mentre cadevano senza vita a terra, brinò piccole piante, divertendosi a spezzarle come sottili fili di cristallo, ghiacciò gli occhi ad una grande pantera che, spaventata dalla sua cecità, si mise a correre all’impazzata, fino a che non cadde in un burrone, spezzandosi le ossa e tingendo di sangue il terreno.

Al culmine della sua felicità, il fanciullo morì.

Il suo corpo si era stirato ed esteso troppo in un ambiente sconfinato e, prima che se ne potesse rendere conto, si spaccò in molti pezzi, non riuscendo più a tornare integro.

La nebbia perse di forza, la sua volontà venne meno e quando il sole sorse, venne inghiottita dalla terra, scomparendo e lasciando solo il suo medaglione al suolo, senza più alcun proprietario.
Da quel giorno fra il tramonto e l’alba ancora a volte delle spire bianche e dense si levano per le valli, nelle pianure e su, fino alle montagne più alte.
Turbinano furiose e come un manto coprono il creato, sperando egoisticamente di poterlo avere tutto per loro; ma al sorgere del sole questo sogno svanisce, lasciando solo il pianto di un bimbo che aveva desiderato tutto ed era rimasto senza niente.